La cronaca spesso, fa orrore. Forse però a peggiorare la situazione c’è il susseguirsi di commenti tuttologici che fa rimbalzare attraverso i social una tragedia fino a trasformare tutto facendo perdere spesso i confini del fatto.
Sulla morte di un neonato a tre giorni dal parto in un ospedale della capitale si è scatenata una polemica insensata sulla retorica della maternità, cui neppure il CNOP ( Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologici) si è sottratto. Speculando sulla tragedia, ha pensato bene di capitalizzare il dramma per chiedere maggiore assistenza psicologica alle madri negli ospedali perché, si legge nella nota “diventare madre non è una questione solo fisica ma psicologica”.
Sembra in buona sostanza, a detta del CNOP, che che una madre, a tre giorni dal parto dopo 17 ore di travaglio e dopo due notti insonni, se si addormenta abbia bisogno di un aiuto psicologico.
Insomma la colpa è della donna, di quella donna che non è diventata psicologicamente madre?
Viene da chiedersi quale sia il modello di madre a cui questa donna avrebbe dovuto addivenire.
Potremmo liquidare questo dibattito sul modello di madre, come retrogrado, quasi che quel modello di madre venisse dal passato o al passato guardasse. Non è per nulla così.
Basti pensare che dal passato abbiamo ereditato una antica figura giuridica come il reato di infanticidio quando compiuto dalla madre e in periodi prossimi al parto, che già nel diritto romano e nelle tracce di legislazioni ancora precedenti non era da considerarsi alla stregua di un omicidio. Tutt’ora il nostro codice penale prevede una sanzione affievolita per questo tipo di reato; e stiamo parlando di un atto volontario e deliberato. Nulla di ciò nel caso di specie: eppure invece il chiacchiericcio di oggi tende a sovracolpevolizzare la madre, in quanto sembra non aver saputo comportarsi da madre cioè aderire ad un modello sacrale e totemico di perfezione dell’azione e del ruolo.
Se la psicologia deve fare questo, se il CNOP vuole piegare la professione per far “diventare madre” aderendo ad un modello di perfezione così inarrivabile da non poter far altro che generare senso di frustrazione, di colpa e di insufficienza, allora propongo che l’abito professionale sia ispirato d’ora in poi alla toga di Torquemada, perché questa distorsione della psicologia mi pare lontana dalla promozione del benessere e della salute psicologica e relazionale delle persone e della società.
Nella mia esperienza professionale, oltre che da psicologo e mediatore familiare, ho avuto la fortuna di ricoprire per svariati anni il ruolo di Pubblico tutore dei minori della Regione Friuli Venezia Giulia e di essere per sei anni membro della sezione minori della corte d’appello, esperienze che mi hanno messo a contatto con una notevole quantità di situazioni ed esperienze diverse di maltrattamenti abusi e di storie familiari estremamente complesse e drammatiche.
Ne ho tratto anche io il convincimento che nel sistema dei servizi manchi un vero sostegno psicologico, ma non semplificato e banale come lo sta spacciando il nostro CNOP che sembra solo orientato a dilatare il numero delle persone impiegate senza per nulla ragionare sul ruolo e significato che il tanto declamato supporto psicologico dovrebbe avere, su quali competenze tecniche siano necessarie e a quali livelli si dovrebbe collocare, magari agendo su più sistemi e non solo sull’utente del servizio.
Ho dovuto incontrare più volte situazioni cliniche e sociali pesanti di donne devastate dall’impatto con le strutture ospedaliere, preposte a seguire gravidanza e parto. Sia chiaro che ogni caso dovrebbe far storia a sé, ma certe situazioni si ripetono e le rilevo io da clinico, ma restano per lo più inconsapevoli ai loro stessi protagonisti che sono le prime vittime del totem della madre perfetta.
La retorica del “dolore necessario nel parto” ad esempio quasi che oggi fossero le strutture ospedaliere e i loro apparati clinici a dover dare esecuzione al comando divino: partorirai nel dolore, quanti traumi produce? Quanti figli unici lascia dietro di sè? Oggi che la chirurgia ha fatto passi da gigante sulla precisione e non invasività assistiamo ancora a danni ginecologici da parto che non vengono mai alla luce se non in un contesto clinico, appunto dallo psicologo, quando si riflettono in disfunzioni sessuali e crisi della coppia, senza che mai con consapevolezza sia possibile per la donna riconoscere che quel danno è ingiusto o ingiustificato.
Perché?
Nascere non è solo un fatto biofisico, certo che no! Nascere è soprattutto un fatto culturale, e intendo culturale in termini complessivi, cioè di un insieme di valori, significati, scelte, organizzazioni, che sono al contempo private e pubbliche, individuali e collettive. Se c’è bisogno della cameretta per il bambino che arriva in famiglia, c’è bisogno anche di una precisa organizzazione sanitaria e ospedaliera. Se che c’è bisogno che i novelli genitori sappiano ascoltare i bisogni dei loro figli, c’è altrettanto bisogno di una struttura di servizi che sappia ascoltare i bisogni di una famiglia.
Il contributo dello psicologo non può cioè limitarsi ad un sostegno psicologico alla madre, come fosse lei l’unico responsabile di un processo così complesso come il metter al mondo, a questo mondo, i figli. Il professionista della salute e del benessere psicologico deve poter dire la sua anche e soprattutto nella costruzione della struttura: cioè organizzazione, spazi, dotazioni e procedure, valori e messaggi che permettano il benessere.
Se lo psicologo è solo al sostegno della medicalizzazione o se è utile solo di fronte alla patologia, allora non ha un vero senso di tutela del benessere, anzi collabora alla generazione di fattori strutturali di stress, come in questo caso.
Essere dalla parte della salute psicologica avrebbe imposto una riflessione più seria e senza sconti sulle ragioni che possono indurre una struttura medica a non ascoltare una richiesta non data da difficoltà psicologiche, ma da semplice fatica, da sfinimento. Avrebbe posto l’attenzione critica sul modello inarrivabile ed ingiustificato di pensare alla maternità che ha portato ad un certo modo di organizzare la vita pratica delle puerpere, invece di portare l’attenzione sul compito della madre di aderire ad un modello.
Chi mi segue sa bene che da tempo cerco di aiutare i genitori a svincolarsi dal totem del Bravo genitore.
Il sostegno insomma è una azione stratifica per ciascun piano in cui l’organizzazione che presiede ad una prestazione sanitaria specifica si pone e non solo affianco dell’operatore terminale senza nessuna possibilità di incidere sul resto. Ma che il deficit sia di pensiero su questa vicenda lo rivelano anche l’uso delle parole.
Mi fa specie infatti che un ente come il CNOP usi la locuzione “diventare madre” che tutta rappresenta il dovere di aderire ad un modello a cui si addiviene se sani o non si addiviene e si è malati. Chi governa la politica della professione avrebbe dovuto usare il verbo “essere” perché ognuna è madre in un modo suo proprio ed è madre per quel suo figlio o figlia.
Allora il sostegno psicologico di cui c’è bisogno per essere madre non sta prioritariamente in un colloquio da fare al consultorio per vedere se ci sono disfunzioni, ma nella discussione delle migliori prassi organizzative dei percorsi nascita che consentano uno sviluppo sano della relazione madre bambino fin dai primi giorni, che rispetti le fatiche e le angosce e non proietti sulla donna il senso di colpa per il suo limite, per la prevenzione del bournout degli operatori, per la necessità di integrare le prassi comunicative della struttura ben oltre il dato medico, insomma a quelle condizioni di contesto entro cui l’essere di una relazione madre bambino possa fiorire come è giusto che sia per ogni vita che nasce e per ogni donna che con quella vita rinasce madre.